Fonte: Fisco Oggi –> Link articolo originale

Si configura abuso del processo in caso di proposizione di un ricorso sostanzialmente diretto a mettere in discussione un provvedimento, regolarmente notificato, ma divenuto definitivo

Non è consentito proporre ricorso tributario contro il silenzio rifiuto di un’amministrazione quando il rimborso sia proposto nei confronti di somme versate in relazione ad atti di imposizione suscettibili di diretta contestazione e divenuti definitivi per mancata impugnazione.
Lo ha stabilito la Cassazione con ordinanza n. 20367 del 31 luglio 2018, con cui ha accolto il ricorso presentato dal comune di Palermo, cassando senza rinvio una pronuncia della Ctr Sicilia.

La vicenda processuale e la pronuncia della Cassazione
La vicenda riguardava un silenzio rifiuto opposto dal Comune di Palermo a un’istanza di rimborso Tarsu per gli anni 1995, 1996 e 1997.
Sia la Commissione tributaria provinciale di Palermo sia la Commissione tributaria regionale della Sicilia avevano ritenuto legittima la richiesta di rimborso, accogliendo le doglianze della società contribuente.

Il Comune di Palermo presentava allora ricorso, denunciando violazione e falsa applicazione del combinato disposto dell’articolo 19 e dell’articolo 21 del Dlgs 546/1992, in quanto la Ctr non aveva considerato che le somme chieste a rimborso erano state pagate su cartella di pagamento divenuta definitiva per mancata opposizione della contribuente.

Il ricorso è stato accolto alla luce del principio secondo cui, in tema di contenzioso tributario, la valorizzazione del silenzio-rifiuto dell’amministrazione al fine di individuare un atto impugnabile da parte del contribuente si giustifica solo nei casi in cui il versamento o la ritenuta del tributo non siano stati preceduti da un atto di imposizione suscettibile di impugnazione diretta, e pertanto, quando la riscossione avviene per mezzo del ruolo, l’impugnazione del contribuente deve essere proposta tempestivamente contro il predetto atto impositivo, senza alcuna necessità di provocare il silenzio-rifiuto dell’amministrazione. Ciò comporta che qualora (come nella specie) il contribuente non impugni le cartelle di pagamento con cui l’amministrazione ha esplicitato la pretesa tributaria, ma presenti istanza di rimborso, dopo aver pagato nei termini richiesti, dalla definitività per mancata impugnazione dell’atto impositivo deriva l’inammissibilità dell’istanza, perché contrastante con il titolo, ormai definitivo, che giustifica l’attività esattiva dell’amministrazione (cfr in senso conforme Cassazione, 672/2007).
Di conseguenza la Corte suprema, decidendo nel merito, ha definitivamente rigettato le doglianze della contribuente.

Ulteriori osservazioni
Il pagamento spontaneo effettuato a seguito della ricezione di un atto impositivo o esattivo e la mancata impugnazione dello stesso non legittimano il contribuente a presentare istanza di rimborso evidentemente effettuata con l’unico scopo di consentire il formarsi di un provvedimento impugnabile.
Sembra quasi configurarsi una forma di abuso del processo inteso quale esercizio improprio, sul piano funzionale e modale, del potere discrezionale della parte di scegliere le più convenienti strategie di difesa (Consiglio di stato, sez. IV, n. 1209/2012).
Il nostro ordinamento è carente di una precisa definizione di abuso del processo. Dottrina e giurisprudenza hanno proteso a considerarlo nel tempo quale proiezione dell’abuso del diritto, incentrata negli articoli 88 e 145 cpc, i quali impongono il dovere di lealtà e probità tra le parti e al giudice il dovere di esercizio del potere finalizzato “al più sollecito svolgimento del processo“.

I giudici sono intervenuti in diverse occasioni, impegnati a un bilanciamento tra opposte esigenze, ovvero tra il diritto di azione, previsto all’articolo 24 e agli articoli 2 e 111 della Costituzione, inteso anche come diritto a un giusto processo, e il principio di solidarietà sociale.
L’abuso del processo si caratterizza: 1) dal punto di vista privatistico e in relazione al dovere di solidarietà di cui all’articolo 2 della Costituzione, attraverso la violazione del principio di correttezza e buona fede posto a tutela delle parti processuali, le quali sono tenute, in virtù di tali canoni comportamentali, a non aggravare la posizione dell’uno dei confronti dell’altro, attraverso strumenti processuali che infliggono all’interlocutore un sacrificio non comparativamente giustificato dal perseguimento di un lecito interesse; 2) dal punto di vista pubblicistico, attraverso la esigenza del giusto processo e della ragionevole durata dello stesso.

In tale prospettiva, si pongono i numerosissimi contributi interpretativi offerti dalla giurisprudenza di legittimità e di merito che hanno classificato le ipotesi in cui è configurabile l’abuso del processo in due grandi categorie riferibili ai casi di:

  1. parcellizzazione della domanda
  2. utilizzo di strumenti processuali a fini dilatori o manifestamente infondati.

Nell’ambito del processo tributario, di tipo impugnatorio, rientra probabilmente nella categoria di cui al precedente numero 2 la proposizione di un ricorso sostanzialmente diretto a mettere in discussione un provvedimento, regolarmente notificato, ma divenuto definitivo per mancata impugnazione.
Sul punto, la giurisprudenza ha già stigmatizzato un tale tentativo, effettuato attraverso l’impugnazione del diniego di autotutela.
Infatti, secondo il consolidato orientamento della giurisprudenza di legittimità, avverso il provvedimento di diniego relativo a un atto impositivo divenuto definitivo non è esperibile un’autonoma e ulteriore tutela giurisdizionale, sia per la discrezionalità propria dell’autotutela, sia perché, diversamente opinando, si darebbe inammissibilmente ingresso a una controversia su un atto impositivo ormai definitivo; in altre parole, in questi casi, può esercitarsi un sindacato sulla legittimità del rifiuto e non sulla fondatezza della pretesa tributaria ormai cristallizzata (Cassazione a sezioni unite, sentenze 2870/2009 e 3698/2009, da ultimo in senso conforme 28069/2017).

La domanda con cui il contribuente, impugnando il diniego di autotutela, non si limiti a denunciare l’illegittimità di tale diniego ma invochi un provvedimento di annullamento di avvisi di accertamento non tempestivamente impugnati va considerata improponibile per “difetto di una posizione giuridica soggettiva tutelabile – in concreto – in capo al contribuente” (Cassazione a sezioni unite, sentenza 9669/2009).
Ciò non toglie che il contribuente possa liberamente dedurre qualsiasi vizio relativo all’attività amministrativa sfociata nel provvedimento di diniego, nelle forme della violazione di legge o dell’eccesso di potere (trattandosi di attività discrezionale), essendogli preclusa unicamente la deducibilità di motivi che implichino un sindacato diretto del provvedimento impositivo sottostante.

In ultimo si evidenza che la Corte costituzionale, con sentenza 181/2017, ha dichiarato infondata la questione di legittimità costituzionale della norma sull’autotutela tributaria (articolo 2-quater, comma 1, del Dl 564/1994). Infatti, affermare il dovere dell’amministrazione tributaria di pronunciarsi sull’istanza di autotutela aprirebbe la porta (ammettendo l’esperibilità dell’azione contro il silenzio) alla possibile messa in discussione dell’obbligo tributario consolidato a seguito dell’atto impositivo definitivo. L’autotutela finirebbe quindi per offrire una generalizzata “seconda possibilità” di tutela, dopo la scadenza dei termini per il ricorso contro lo stesso atto impositivo.

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