È piuttosto pacifico il fatto che il contribuente che porta in deduzione spese e altri componenti negativi ha l’onere di dimostrare che i costi sono inerenti all’attività svolta, di dimostrare, cioè, la corretta applicazione del fondamentale principio di inerenza.

Questa, abbastanza peculiare, inversione dell’onere della prova ha portato e continua a portare ad una proliferazione di contestazioni da parte dell’Agenzia delle Entrate, contestazioni che, tuttavia, dispiegano un ventaglio di fattispecie che spaziano dal ragionevole al decisamente eccessivo. Tanto si può dire se è vero che, in alcuni casi, è possibile assistere a situazioni sovraccariche di stress in cui i funzionari dell’Agenzia delle Entrate e gli imprenditori o i dirigenti si scontrano, reclamando i primi la meccanica applicazione del principio di inerenza, chiedendo giustificazioni inverosimili e pretendendo (a torto) di entrare nel merito delle dinamiche aziendali, mentre i secondi difendono il proprio operato, a maggior ragione se supportati dai risultati in termini di reddito prodotto.

Questo dualismo è stato facilitato anche dalla diffusione, tanto in dottrina quanto in giurisprudenza, di un concetto di inerenza intesa in senso stretto, fatto derivare dall’applicazione dell’art. 109, comma 5, del TUIR, secondo il quale un costo sarebbe deducibile se e solo se si riferisce ad un’attività da cui derivano ricavi o altri proventi che concorrono a formare il reddito; purché «siano funzionalmente e direttamente collegati con le attività produttive dell’impresa». La sentenza della Corte di Cassazione, Sezione Tributaria, n. 450 dell’11 gennaio 2018, pur rigettando il ricorso del contribuente per motivi di merito, ha voluto puntualizzare alcune caratteristiche del concetto di inerenza che sembrano voler riportare la contrapposizione contribuente/Pubblica Amministrazione su un piano più ragionevole.

La Suprema Corte, infatti, nell’affermare che è sbagliato definire l’inerenza sulla base di quanto contenuto nell’ex art. 75, comma 5 del TUIR (ora art. 109), il quale si riferisce all’indeducibilità dei costi relativi ai ricavi esenti (ferma l’inerenza) ha voluto specificare che, diversamente, «l’inerenza esprime la riferibilità del costo sostenuto all’attività d’impresa, anche se in via indiretta, potenziale od in proiezione futura, escludendo i costi che si collocano in una sfera estranea all’esercizio dell’impresa (giudizio qualitativo oggettivo).»

L’inerenza, perciò, dovendo essere apprezzata su un piano qualitativo, deve essere tenuta distinta dal piano quantitativo orientato solo ed esclusivamente ai concetti di utilità e/o vantaggio, così come, allo stesso tempo, deve essere tenuta distinta dal concetto di congruità del costo. Quest’ultima precisazione risulta essere particolarmente vitale in quanto proprio questa distorsione, spesso alla base delle rettifiche fiscali, è stata terreno di alcuni tra gli scontri più accesi tra la classe imprenditoriale e l’Agenzia delle Entrate in quanto afferente ad una sfera a diretto contatto con quella della discrezionalità imprenditoriale e della libertà di iniziativa economica. La sproporzione e/o l’incongruità della spesa, pur rimanendo indici rilevanti della mancata di inerenza, in virtù di quanto specificato dalla recentissima sentenza della Suprema Corte, non possono, o non potranno più, essere identificati con essa.

Marco Cantoni
16/01/2018

Condividi:
Previous PostNext Post

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.